Presso l’imbocco della galleria, una modesta tettoia in pietra e legno, la teciàda, fungeva da vero e proprio laboratorio artigiano. Qui, con pazienza e abilità, i giovellai lavoravano i blocchi di serpentino ridotti in lotti da 30-40 kg. Con scalpelli affilati e colpi precisi di martello, i löt venivano scissi in lastre sottili e poi sagomati con il fulcêt, una paletta piatta in ferro, fino a ottenere lastre rettangolari: i ciodi, le celebri piode della Valmalenco.
La teciàda comprendeva anche una cucina rustica, dove si preparava il pasto (sempre polenta) e un deposito per attrezzi e legna. Il lavoro si divideva in due cantieri: uno sotterraneo, nelle profondità delle gallerie, e uno in superficie, più sicuro, riservato ai cavatori più anziani.
I giovellai erano riuniti in compagnie, vere e proprie confraternite con fini sociali, religiosi e mutualistici, che operavano solo in parte dell’anno, alternando il lavoro in cava a quello nei campi e negli alpeggi. A fine giornata le piòde venivano divise tra i soci, accatastate e trasportate a dorso di cavallo lungo la valle, avviando un commercio secolare che, pur cambiando forma, è giunto sino ai giorni nostri.