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Giuél

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  • Raggiungibile a: Piedi

    L’attuale Giovello si presenta come un versante segnato da discariche di Serpentino, che celano il ricordo di un’intensa attività estrattiva sotterranea. In superficie restano le tracce di quel passato: gli imbocchi delle gallerie, detti buchèl, e i ruderi delle antiche teciàde, tettoie in pietra a secco dove si lavoravano i blocchi di serpentinoscisto.

    In origine, l’estrazione avveniva a cielo aperto, ma con l’esaurimento degli strati superficiali si passò alla realizzazione dei giuèi, cave sotterranee scavate lungo le “banche buone”, strati di Serpentino scistoso di qualità. Queste formazioni, inclinate verso il torrente Mallero, seguivano un doppio pendio da est a ovest e da sud a nord, creando una struttura complessa e faticosa da coltivare.

    I primi strati, segnati dall’azione del gelo, erano facili da individuare e cavare, ma più si penetrava nella montagna, più la roccia diventava compatta e per estrarla era necessario l’aiuto del fuoco, come nelle miniere di ferro. Il metodo, seppur efficace, produceva fumo e fuliggine rendendo l’ambiente insalubre.

    Lavorare all’interno dei giuèi era estremamente faticoso e rischioso: scarsa luce, rischio costante di crolli, fatica fisica. Si rendevano necessari muri di contenimento a secco per sostenere le banche superiori, trasformando le gallerie in vere opere di ingegneria artigiana. I blocchi di roccia venivano ridotti in löt da 30-40 kg e l’estrazione era gestita da squadre di tre giovellai, con turni tra scalpellatura, costruzione dei muri e gestione dell’illuminazione.

    Il trasporto avveniva a spalla (a cupa) o a strascico, lungo i ripidi canaloni. Solo nel XIX secolo fu introdotta la slitta in legno di pino mugo, poi dotata di ruote (càr) e, infine, di rotaie attorno al 1925.

    Presso ogni buchèl si trovava la teciàda, dove, con l’uso di martelli (martèl da giuelãa), scalpelli (gügièta, gügietum) e fulcèt, si effettuava la raspäa: la sottile scissione in piòde, dette anche ciödi, rettangolari e rifinite agli angoli. È da qui che nascono le celebri piòde della Valmalenco, frutto di sapienza, fatica e dedizione, simbolo di una tradizione antica ancora viva.

    Parla l'esperto
    Silvio Gaggi

    I giuelèè erano cavatori umili che ogni mattina all'alba calzavano zoccoli di legno o vecchie scarpe rattoppate e il vestiario consunto; si incamminavano lungo sentieri fino al Giovello, sopra Chiesa in Valmalenco, sfidando ogni disagio: il costante pericolo, il freddo, l'umidità, la polvere e la fatica; a mezzodì mangiavano al freddo in baracca: un pezzo di polenta compressa tra le mani con il formaggio o scimüt, poche volte c'era il vino. Mestiere che avevano imparato da giovani appena finita la scuola elementare; seguivano il padre, il nonno, il fratello o altri familiari prima prestando piccoli servigi (imparare a forgiare gli attrezzi) per poi cimentarsi con il lavoro di minatore, cavatore e picca pietre. Così divenivano uomini con un mestiere di cui andavano fieri, anzitutto perché assicuravano sostegno alla famiglia. I giuelèè pagarono ai tempi un pesante tributo di vite, specie quando conobbero la polvere da sparo; l'incompetenza in materia, la mancanza delle micce portò i minatori ad adottare strategie empiriche e rudimentali assai pericolose, che furono causa di gravi infortuni. Tutti uniti riuscirono così a creare un fondo sociale di mutuo soccorso per quelle famiglie coinvolte in disgrazie e bisognose di aiuto. 

    … 

    Le compagnie dei giuelè lavoravano composte da tre a sei persone e si distinguevano con un soprannome: Tapiñ - Cunca - Pedròt - Ustanéi - Bac' - Buc' - Palüét - Luluch - Schenatun - Véscuf - Ragn - Sambüch - Nigul - Magnä - G giấnch - Cicich - Palố - Cabéi - Prémul. Ogni compagnia aveva un libretto di concessione comunale e lo consegnavano nei periodi morti. Erminio Dioli, artista della Valmalenco, nel 1930 definì la ciöda il prodotto migliore per la copertura dei tetti. I fratelli Dell'Agosto, detti Cunca, furono gli ultimi ad abbandonare l'estrazione tradizionale in galleria nel 1984. Ogni cava aveva un soprannome a seconda della famiglia che vi lavorava: Giuèl del Pinacul - del Parè - di Cabéi - Giuel di Scàgn - di 'G giänch - di Paluét - del Furabüsciun - del Puz - di Prémul - di Bac' - di Cävéri - Giuèl sồt ciàta - del Sambüch (Giueluñ) - di Schenatüñ - z'zur Ciata - Giuelin di Redentur - di Palö - di Pulegüñ.

    Buona parte delle compagnie erano iscritte ai coltivatori e lavoravano solo durante l'inverno e in alcuni periodi morti dell'anno. Solo pochi avevano un'assicurazione individuale; molti si iscrissero alla cassa artigiani sorta nel 1959. Ogni compagnia aveva il proprio magazzino dove andavano i commercianti a trattare: quasi sempre era a cambio merce con farinacei e vino. I commercianti erano tutti caretèè che trasportavano le piode a Sondrio, dove avevano il magazzino e le vendevano il sabato al mercato. I copritetti erano pochi, tra cui i Pinal, gli Unèst e i Giru di Vassalini. Chi acquistava i ciödi doveva fare da sé nella posa. Le tegole della Valmalenco furono portate nei Grigioni su cavalli da soma tramite il passo del Muretto, poi su slitte fino al Maloja e infine su carri, anche fino a Coira dove si trovano ancora tetti realizzati in piode risalenti al XV secolo. I giuelèè, come altre corporazioni, erano solidali fra loro, aiutandosi in caso di disgrazia, anche fuori paese; fra questi casi va ricordato l'aiuto offerto dai malechi durante la catastrofe di S. Antonio Valfurva, paese dell'Alta Valle, costituito da un'ottantina di abitazioni distrutte da un vasto incendio. Accadde il 10 aprile 1899 fortunatamente in un orario in cui gli abitanti erano impegnati nei campi nei lavori agricoli. Su 500 persone, morirono due anziani e 20 rimasero ferite. Fu uno dei più grossi incendi divampati in Valtellina nella storia. Il villaggio fu subito ricostruito, ma non più con la copertura dei tetti in scandole di legno, bensì in tegole della Valmalenco, posate dai giuelèè a loro spese. Pensate quanti sacrifici hanno dovuto affrontare in un momento di crisi e quanti erano emigrati nelle Americhe per mancanza di lavoro, ma nonostante tutte le difficoltà seppero accettare l'immane tragedia dei loro compaesani in situazione di bisogno. La segale che maturava nella zona di Dagua era la più matura e cresceva con lo stelo più grosso: per questo motivo era impiegata dai giuelèè per farne la miccia, infilandovi al suo interno la polvere nera tritata finemente, poiché la miccia a lenta combustione non era ancora conosciuta.

    Silvio Gaggi, Il volgar eloquio, Tipografia Bettini Sondrio, 2011 

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