Il mestiere del parolaro non richiedeva particolare specializzazione: spesso era il padre o un parente ad insegnare all’apprendista i segreti dell’attività portandolo con sé nei viaggi lontano da casa.
L’attrezzatura usata era costituita da pochi strumenti: il mantice (el bufét) o la forgia, alcune verghe di stagno, un piccolo incudine issato su un tronco di legno (l’incügen), la forbice per il taglio della lamiera (i fòrbes), il bolzone (el bulzùn), il martello, la chiodera (la ciudère), la tenaglia, alcuni fogli di lamiera di rame, un contenitore per l’acido crudo ed uno per quello cotto. Tutto il materiale veniva contenuto in una cassetta di legno (la bùlgia), utilizzata anche come sgabello di lavoro, munita di una cinghia di cuoio e portata a tracolla durante gli spostamenti.
Giunto in paese, il magnano effettuava un giro dell’abitato per annunciare la sua presenza, con il caratteristico grido di richiamo l’è scià èl magnàn, spesso accompagnato dal suono emesso da un piccolo paiolo di rame percosso con un bastone.
Il lavoro veniva eseguito sempre all’aria aperta, di solito in un angolo della piazza del paese, essendo infatti indispensabile l’uso del fuoco. Lo stagnino utilizzava poi quotidianamente alcuni materiali come lo stagno, mescolato con piccole dosi di piombo, il rame, che richiedeva una particolare abilità per la lavorazione e solo alcuni magnani riuscivano ad acquisirne le tecniche, la lamiera zincata, l’acido crudo o acido muriatico, l’acido cotto, la stoppa e l’ovatta. C’era poi la bèrfe, il sigillante applicato sulla parte esterna dei recipienti rotti o screpolati utilizzati soprattutto per cuocere i cibi, formata da una miscela di albume d’uovo e aglio, polvere di pietra ollare, calce e cenere.
[...] Messi in spalla gli attrezzi del mestiere, molti uomini dopo l’autunno, lasciavano il paese e percorrevano a piedi la Valtellina per esercitare sulle piazze il lavoro dello stagnino. Molto presto si spinsero anche fuori provincia, raggiungendo le valli bresciane e bergamasche. Molteplici sono le testimonianze dell’emigrazione dei parolari di Lanzada in Valcamonica, in Val Brembana, in Val Seriana, in Val di Scalve e in Val d’Ossola. Numerosi furono anche quelli che presero residenza stabile presso il paese dove si recavano più spesso, continuando ad esercitare la professione e investendo talvolta anche in altri settori economici. Facevano ritorno solo occasionalmente e durante le festività dei Morti, a Natale e a Pasqua e poi definitivamente, a Pasqua inoltrata. La vita quotidiana del magnàn, con le sue peregrinazioni da un posto all’altro, la sosta nelle osterie, il riposo nei fienili, gli aneddoti, i sistemi di lavorazione, il dosaggio dei metalli, rappresentava un mondo singolare con un proprio codice d’onore e un grande senso di solidarietà. La professione di stagnino ambulante, anche se espressione di una realtà marginale, era però vissuta con la compostezza e la dignità tipica della gente di montagna. In questo mondo legato all’esercizio della professione di magnàn nasce il calmùn, ossia il gergo che serviva ai parolari per comunicare tra loro senza farsi capire dagli estranei. Esso aveva principalmente una funzione di difesa ma creava anche una sorta di solidarietà all’interno del gruppo.