Le prime testimonianze storiche sulla lavorazione della pietra ollare in Valmalenco risalgono alla metà del XVI secolo, riportate dall’umanista bolognese Leandro Alberti nella sua “Descrittione de la Italia”. Le cave principali in Valbrutta si trovavano nelle zone di Val de l’acqua, Muntagnère e Rive; gli artigiani individuavano il punto di affioramento del filone di pietra “buona” e da lì iniziavano a scavare il cunicolo di estrazione. La vena di pietra ollare si presentava spesso raccolta in sacche, incastonate tra strati di serpentino.
Verso la fine del XVII secolo, grazie all’uso della polvere da sparo, l’attività di sbancamento della roccia divenne più rapida, sebbene aumentassero i rischi per i cavatori. Nelle cave più antiche, i cunicoli, chiamati trùne, erano strettissimi, costringendo i lavoratori a muoversi curvi o a carponi. Il lavoro si svolgeva alla luce fioca di torce rudimentali di legno resinoso, i lüm, sostituite nel XIX secolo da lampade ad olio o ad acetilene.
L’estrazione avveniva prevalentemente durante i mesi invernali, quando il gelo riduceva l’umidità e bloccava le infiltrazioni d’acqua nelle cave. I blocchi di pietra estratti, detti ciapùn, pesavano in media 55 kg e venivano trasportati a spalle, oppure, nei tratti più accessibili, trascinati grazie a un robusto ramo.
Il lavoro di estrazione e di lavorazione era suddiviso: un operaio si occupava di scavare i massi, un altro della lavorazione al tornio. Il ricavato della vendita veniva poi diviso equamente tra i due artigiani. Questo metodo tradizionale testimonia un'antica arte artigianale legata alla pietra ollare e alla cultura produttiva della Valmalenco.